Biennale di Venezia: in una giornata flagellata dalla pioggia è stata presentata ufficialmente la 16. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo emblematico Freespace. Grandi assenti le due curatrici designate dal Presidente Paolo Baratta: Yvonne Farrell e Shelley Mc Namara, conosciute come Grafton Architects, note in Italia per aver firmato la nuova sede della Bocconi a Milano.

Irlandesi, basate a Dublino, le due progettiste sono rimaste bloccate nelle proprie case per colpa dell’impeto di Burian, la bufera di vento e neve che insieme alla tempesta Emma in questi giorni sta mettendo in ginocchio la Gran Bretagna.

È proprio dalle rispettive abitazioni che, grazie ad un collegamento via Skype, Yvonne e Shelley hanno illustrato il proprio punto di vista sull’edizione 2018 della kermesse partendo dal manifesto programmatico lanciato lo scorso giugno , basato sulla convinzione che beneficiare dell’architettura sia un diritto di tutti.

Il loro intervento, come da tradizione, è stato preceduto dal discorso introduttivo di Baratta che, come un one man band capace di dominare da solo il palcoscenico, è stato il vero mattatore dello show.

È lui che, con un evidente riferimento al tema generale della mostra di quest’anno (ma con lo sguardo rivolto alle Biennali precedenti), mette l’accento sul fatto che l’architettura resta la più politica delle arti e che con essa si producono beni pubblici. Questi, a loro volta, possono essere frutto di un’azione politica o nascere come dono di un singolo.

Nella nuova edizione immaginata da Grafton Architects il dono equivale allo spazio, uno spazio che - come suggerisce il termine Freespace - è inteso libero e gratuito così come il sole, l’aria e l’acqua che la terra ci fornisce regolarmente. Qualcosa che rappresenta ”il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio”.

Si, perché questo è il punto di partenza di Farrel e Mc Namara: la generosità, qualità che riguarda il passato, il presente, il futuro, che negli scorsi mesi le due hanno cercato di rintracciare nelle decine di progetti selezionati in giro per il mondo che, a partire dal prossimo 26 maggio fino al 25 novembre, saranno esposti nella grande mostra principale suddivisa tra il Padiglione Centrale ai Giardini e le Corderie dell’Arsenale.

Quando parlano delle suggestive location della manifestazione, molto diverse tra di loro (la prima un sistema labirintico con luce zenitale, la seconda un open space dalla luce mutevole), Yvonne e Shelley escono dai panni del curatore per entrare in quelli dell’architetto - veste in cui si sentono evidentemente a proprio agio - e sottolineano la centralità del progetto, unita alla necessaria celebrazione del luogo. In questo caso Venezia, città rispetto alla quale le sedi della Biennale hanno un’ubicazione eccezionale.

Come queste saranno allestite per ospitare la mostra, però, non è dato saperlo anche se, assicurano, l’insieme avrà un forte impatto sul visitatore comunicando la complessa natura spaziale dell’architettura.

E dunque sull’exhibit design di Freespace regna volutamente il riserbo assoluto. Come del resto sui progetti scelti per l’esposizione (realizzati e non) dei quali si conoscono solo i nomi degli autori, tanti e provenienti da geografie molto differenti, accomunati dalla concreta adesione al manifesto di partenza.

Le immagini, comunque, non sono assenti dal video di presentazione al quale le Grafton hanno lavorato notte tempo una volta realizzato che non avrebbero potuto raggiungere Venezia, solo che si riferiscono alle ispirazioni che hanno guidato la ricerca delle due curatrici, progetti di varia natura, e a diverse scale, capaci di “offrire un riparo ai nostri corpi e di elevare i nostri spiriti”, tra cui spiccano: gli interni del veneziano Palazzo Fortuny, l’entrata del Can Lis a Maiorca di Jørn Utzon, il museo di arte moderna di Lina Bo Bardi a San Paolo.

Si tratta di esempi illustri che, a livello spaziale, “rappresentano una parola di saluto e benvenuto”, architetture che sono “coreografie della vita quotidiana” che sono state assunte come pietre miliari e termine di paragone.

Non manca, a tale proposito, l’appello ai curatori dei 65 padiglioni nazionali tra cui quest’anno per la prima volta compare anche la Santa Sede che, come location, ha scelto l’Isola di San Giorgio Maggiore.

In chiusura, a sottolineare e visualizzare il concetto di generosità, un proverbio greco che recita: “ una società cresce e progredisce quando gli anziani piantano alberi alla cui ombra sanno che non potranno sedersi”.

Headshot of Alessandro Valenti
Alessandro Valenti

Romano, architetto, master a Barcellona e Phd in Italia, è direttore di elledecor.it e professore di Architettura degli Interni presso l’Università di Genova. Autore di libri quali “Case disperatamente contemporanee”, “Patricia Urquiola. Time to make a book” e “Nuovi paesaggi domestici. L’abitare ai tempi del Coronavirus rappresentato in 3 atti e 3 epiloghi”, è altresì guest professor presso l’Università BUCT di Beijing.