[Architettura]
I giardini più belli di New York
Un nuovo libro sugli spazi verdi meno conosciuti della città
Villa Planchart a Caracas (1955).
Denver Art Museum (1971).
Grattacielo Pirelli a Milano, ultimato nel 1960 e inaugurato nel 1961.
Da sinistra, Sedia Superleggera (1957) prodotta da Cassina, in frassino e canna d’India; Sedia Gabriela, detta “di poco sedile”, realizzata in prototipo dalla ditta Walter Ponti e poi prodotta da Pallucco (1971); Lampada Bilia per FontanaArte, 1931.
A sinistra, Chiesa della Gran Madre di Dio, Taranto (1964-1970), dallo straordinario gioco di pieni e di vuoti. A destra, Appartamento di Gio Ponti a Milano, in via Dezza (1957).
Stoffa Balletto alla Scala per Manifattura Jsa, 1950 circa.
Vaso con la tipica lavorazione del vetro a canne multicolori, per Venini, anni ’40.
Mani e maschere per Sabattini/Christofle, anni ’70.
Gio Ponti ritratto accanto alle sue sedie Superleggera nella sede newyorkese di Alitalia, di cui aveva progettato tutti gli interni.
Da sinistra, primo numero di Domus, rivista creata da Ponti e uscita dall’aprile 1929; secondo Palazzo Montecatini a Milano, in largo Donegani 2, ultimato nel 1952; Auditorium del Time and Life Building a New York (1959).
La Triennale celebra il maestro del ’900, genio multiforme e designer globale, con una retrospettiva che ripercorre la sua creatività. Ne parla il curatore.
Cercare di racchiudere la complessa avventura creativa di Gio Ponti in un’esposizione è un’impresa impossibile. Il suo contributo alla storia del design, dell’architettura, della produzione industriale, della ceramica, del decoro di interni, della grafica e delle riviste forma un arcipelago ampio e frastagliato, per cui una mappatura risulta estremamente ardua e riduttiva. Per sopperire a questo rischio, l’approccio metodologico che si è assunto nella preparazione della mostra alla Triennale di Milano è stato quello di lavorare sulle emergenze di un iceberg immaginario, cercando di esaltarne l’imponenza e la versatilità. Di fatto il tentativo è stato di ricostruire, con Gio Ponti Archives e gli eredi dell’architetto, una vitalità e una contemporaneità che partendo dagli anni Venti segna tutto il suo percorso, risultando anticipatoria rispetto alle libertà visive e plastiche, formali e ambientali della ricerca attuale.
La sua attitudine a lavorare sulle contraddizioni di un linguaggio per immagini che poteva “affidarsi” a qualsiasi cosa, nave o piatto, sedia o vaso, grattacielo o lampada, hotel o murale, poesia o pavimento, gli ha permesso un approccio liberatorio, che nel contesto di una cultura monolitica, quello dello stile internazionale, è risultato dirompente e sconvolgente. Così è riuscito nell’impresa di passare da un fare classico a uno eclettico, mantenendo in vita un’iconografia ricca di racconti e di immagini. Muovendosi in un universo che prevedeva la progettazione “dal cucchiaio alla città”, quindi non specializzato né settoriale, Ponti è riuscito a spaziare e a divulgare una materia poetica, tradotta in prodotto di serie. I suoi contributi fantastici e narrativi per la Richard Ginori, quanto la forza divulgativa delle sue riviste, da Stile a Domus, hanno concretizzato luoghi della sorpresa visiva e informativa, che ha nutrito il contenuto dei suoi arredi e dei suoi edifici. Questi non hanno risposto alla domanda di una codificazione unica, tipica dell’astratto e freddo razionalismo, ma all’esigenza di un “riconoscimento” che scaturisse dall’identità del suo creatore. Assenza di un progetto “oppressivo” che fosse solo legato alla funzionalità e all’uso a favore di un “personale” che si rispecchia nell’uso dei materiali e delle decorazioni.
Non dovendo negare l’aspetto “artistico”, Ponti si è conquistato un’unicità che deriva dalla sperimentazione di figure e forme in maiolica, in rame e in terraglia smaltata, quanto di mobili in radica di noce o in cristallo o in tubolare metallico. Non si è fissato su una struttura rigida, ordinata e riduttiva, ma ha costruito secondo una metamorfosi che comporta il cambiamento e l’amplificazione dell’immagine. Si affermano qui le sue collaborazioni con artisti quali Piero Fornasetti e Fausto Melotti, quanto le sue articolazioni meraviglianti del Grattacielo Pirelli a Milano (1956-1960), che è studiato per evitare un’ulteriore definizione di una roccaforte dalla volumetria pura, quanto come un’apertura di spazio alla città: un flusso tagliante e tagliato che moltiplica le occasioni visive e la produzione delle forme. È lo stesso investimento sensibile che regola l’eleganza dinamica della sedia Superleggera per Cassina, quanto l’effetto cromatico ed energetico dei vetri per Venini. Di fatto, elementi che introducono rispetto alla dittatura dell’ordine, tipica del Novecento, lo spirito di un effetto caotico e disordinato, che si riflette nelle facciate a rombo o a geometria spezzata delle sue architetture, dalla Villa Nemazee (Teheran, 1957-1964) alla Chiesa dell’Ospedale San Carlo (Milano, 1966). Un dinamismo che vive di sensi multipli e di incessanti spostamenti, senza riferimento a un’istanza univoca e lineare: discorso regolato dal desiderio di un immaginario progettuale a caleidoscopio.
“Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte” (Gio Ponti)
Info: Espressioni di Gio Ponti, Triennale, viale Alemagna 6, Milano, catalogo Electa, www.triennale.org. Fino 24/7.
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