Qual è il ruolo del collectible design? Quanto sono importanti le fiere all'interno di questo scenario? Come cambierà il panorama di questa tipologia di eventi e del turismo ad esso connesso nell'arco dei prossimi dieci anni? Abbiamo provato a rispondere a queste domande — e a molte altre — con il curatore della sezione Object di MiArt 2018, Hugo Macdonald.

È stata la sua prima esperienza di curatela in una manifestazione di queste dimensioni?

È la mia prima esperienza nella curatela di gallerie di collectible design. Ho già curato vari eventi in passato ma mai in questo settore, fino a che Alessandro Rabottini mi ha contattato lo scorso anno per cercare di dare un sapore più contemporano a questa sezione e portare un po' di più presenza internazionale.

Era deluso dalle scorse edizioni?

No, affatto, ma penso volesse aprirsi maggiormente, di riflesso a quello che sta accadendo alla fiera d'arte, a una gamma di espositori molto diversi da tutto il mondo. Voleva che Object si sviluppasse in una direzione simile. Quindi non c'era niente che non andasse nel board passato, ma ha voluto pensare alla strategia per il futuro: Object e le altre sezioni crescono insieme.

È un approccio molto coraggioso da parte del curatore di una fiera perché, specialmente qui in Italia, siamo molto conservatori nell'intendere le fiere d'arte e quindi anche il design risente di questa visione.

Nel contesto italiano l'eredità culturale del design è molto forte e anche nel settore di quello da collezione la sensazione è che il patrimonio sia davvero molto potente. C'è un reale attaccamento al passato e quando si guarda alle gallerie più giovani, e ai designer più giovani, si trova un lascito molto pesante.

C'è qualche galleria in particolare dove possiamo riconoscere questo peso?

Gallerie che credo abbiano fatto davvero un ottimo lavoro nello sposare il passato con il presente ed il futuro sono Nero e Luisa Delle Piane. Rossana Colombari poi è fantastica nel riportare in vita storie del passato con un'interpretazione moderna.

Anche nel design si sente dunque il grande tema di questo MiArt: Storie?

Quello che proviamo a fare con Object quest'anno è portare il pubblico a riflettere sulle storie dietro i prodotti e non solo al loro costo.

Il collectible design ha una reputazione difficile, in particolar modo quando viene mostrato insieme all'arte, e si rischia di porre l'accento sul prezzo. Quello che è interessante però, è comprendere che il valore di questi pezzi sta nella cultura che li accompagna, le storie costruite intorno a questi oggetti e i contesti in cui sono stati creati. La nostra intenzione primaria è portare tutto questo a galla e far sì che il pubblico possa vedere, oltre le cose fisiche, anche il lato contestuale del design.

Qual è il suo punto di vista sullo scenario del design da collezione? Trova ci siano aspetti in comune tra i percorsi che stanno affrontando le gallerie italiane e quello che sta accadendo nel resto d'Europa, in termini di trend, ricerca o riscoperta?

Una cosa affascinante è il reale e rinato interesse nei progetti di Superstudio. Se pensiamo al contesto sociale, politico ed economico nel quale Superstudio è emerso, si tratta di un periodo di rotture e instabilità nel quale si suppone Superstudio dovesse fungere da distrazione. In contrasto all'establishment, doveva essere divertente, giocoso e un aiuto per poter guardare alle cose da un punto di vista differente.

Anche oggi stiamo attraversando tempi di instabilità politica, sociale ed economica in tutto il mondo e quando guardo all'esperienza di Superstudio, anche per me la sensazione immediata è che sia nuovamente fresca. I giovani designer emergenti, in particolar modo nel collectible design, subiscono un'influenza diretta di quel periodo.

La storia si ripete, anche nel design. Nella produzione globalizzata di quest'epoca, non credo che i pezzi di design vengano riconosciuti dal pubblico in termini di “questo prodotto è italiano” oppure “questo è cinese, o inglese”.

Trovo sia un meraviglioso punto di vista, ed è una delle prime volte che si menziona questo tabù della nazionalità, perché è un aspetto del quale il design è molto geloso. Anche la vicina designweek di Milano subisce negativamente queste differenze: molte mostre recano già nel titolo il paese d'origine dei collettivi che ivi espongono.

Sono molto interessato a questo tema e a comprendere come questi confini possano venire abbattuti. La Milano Design Week ha una tradizione molto radicata e la sua massiva inflazione fa sì che gli studi e le aziende coprano in questa sede lo spettro completo delle discipline del design, da quello da collezione fino ai più contemporaneo brand high-tech.

Hanno tutti un ruolo molto importante nel panorama ma la mia impressione è che i marchi più old-fashion parlino ancora di nazionalità, mentre quelli più contemporanei guardino più all'esistenza umana, provando a ridisegnare i modi in cui viviamo.

Qui da Luisa Delle Piane, per esempio, coesistono nello stesso spazio mobili di Sottsass e i nuovi oggetti di Marco Guazzini. Queste compresenze non si trovano oramai solo nelle gallerie, ma anche nelle nostre case e negli altri luoghi del quotidiano.

Questi confini si stanno mescolando poco a poco. Il fatto di avere la sezione Object al MiArt contribuisce a questo processo in una maniera meravigliosa, comunica al pubblico, anche quello meno familiare al mondo del design, che non è un'area nella quale non possono entrare a meno che non siano addetti ai lavori. In molti pensano che il collectible design consista di sedie, e sedie su cui non si si può sedere, ma la verità è che si tratta di cultura raccontata attraverso gli oggetti. Le storie che si possono trovare in tutti questi pezzi sono le storie di come le persone vivono e abitano e sono lenti attraverso le quali si può avere una visione della storia sociale.

Quello che per esempio ho trovato interessante è che da Dimoregallery è esposta una numerosa collezione di mobili anni '50 che non si sa da quale palazzo provenga o chi sia il progettista, ma questo non ha importanza. È davvero una novità per il settore del design, specialmente in Italia dove la firma conta moltissimo. Questa è un'operazione di ricerca che va oltre l'autorialità.

Da Gallery Feldt inoltre alcuni importanti pezzi storici di design danese si sposano alla perfezione con lampade e ceramiche contemporanee e questo è veramente rivoluzionario per la tradizione della Danimarca.

Così come in Italia, la tradizione danese è molto forte, tanto che in entrambi i luoghi le giovani generazioni di progettisti precepiscono le produzioni dei maestri come intoccabili. Il ruolo che gioca questa galleria è quello di mostrare al pubblico che questi oggetti si possono acquistare non solo nel modo in cui lo farebbe un museo. Si tratta di arredi reali, da vivere e utilizzare nel quotidiano, e i pezzi con cui la galleria ha deciso di combinarli sono perfetti per restituire la volontà di ammorbidire questa preziosità storica.

Anche l'allestimento dell'intero stand riflette questa intenzione.

Infatti cerca a sua volta di abbattere le barriere di qui sopra, tra le quali spesso il pubblico si sente intrappolato. E fare questa operazione nel contesto di una fiera d'arte è importante – come sappiamo l'arte ha una relazione difficile con il design – ma allo stesso tempo si inserisce in una fiera nel cuore della città di Milano la settimana precedente a quella del Salone del Mobile. Questo aiuta i visitatori a intendere la disciplina in maniera leggermente differente: l'approccio non deve essere rigoroso nel pensare che il design abbia un significato preciso senza che gli sia concesso assumere significati diversi.

Cosa le è piaciuto di più in questa sezione?

Erastudio Apartment ha portato Nanda Vigo, una delle migliori designer di tutti i tempi. Le sue produzioni trasmettono una sensazione simile a quella di cui accennavo parlando di Superstudio, con progetti che sopravvivono attraverso otto differenti decadi.

Il suo approccio al design muta nel tempo: quando ha iniziato a progettare è partita dal significato intrinseco di cosa è il design, di cosa avrebbe potuto diventare e di come le persone si sarebbero potute avvicinare ad esso. Avere lei presente allo stand a fianco a giovani designer ventenni, appena laureati, costituisce una diversità nella disciplina che credo renda il pubblico più consapevole di tutte le sue sfaccettature.

Il numero di fiere di design da collezione, così come quello delle designweek, sta crescendo rapidamente in tutto il mondo. Crede che le due realtà si scontrino una con l'altra o che al contrario si rinforzino a vicenda?

Da un punto di vista strettamente personale, ce ne sono anche troppe e la situazione presto si calmerà lievemente. C'è molta competizione al momento ed è ottimo perchè aiuta tutte queste realtà a rinforzare le loro specifiche identità in opposizione alle altre. Ad oggi può sembrare una situazione confusa e portare dei pezzi alle fiere, sia per i galleristi che per i designer, è un grosso investimento.

Nel mondo del collectible design i collezionisti in realtà non vogliono essere presenti a una fiera ogni settimana, qundi possiamo dire che tra cinque anni questo panorama apparirà piuttosto diverso. Molte fiere neonate stanno provando nuove modalità di affermarsi, costituendo uno stimolo per forzare le altre a non sedersi sugli allori e pensare che basti avere dello spazio da riempire con delle gallerie che espongano le loro acquisizioni. È necessario provare a raggiungere il pubblico in maniera più proattiva.

Per quanto riguarda le Design Week – non sono sicuro che le fiere e le settimane del design siano necessariamente in opposizione – la produzione a livello globale induce il settore ad aprirsi sempre di più e, di conseguenza, a capire come il design sta crescendo e come si sta evolvendo. Tutti vogliono avere la propria Design Week e questo non è sostenibile a lungo termine. È chiaramente entusiasmante avere l'occasione di visitare nuove città e nuovi paesi e poter osservare come il design emerga in questi luoghi, ma la mia sensazione è che tra dieci anni queste realtà possano mutare nella loro scala ed essere lievemente più concentrate, a livello regionale forse.

Viaggia molto? Quali sono gli appuntamenti a cui non può mancare?

Mi divido tra le varie designweek e le varie fiere e nel mio passato da giornalista ne ho coperte molte per Wallpaper* e Monocle. Sono sicuramente esperienze interessanti perché più si viaggia e più ci si rende conto di come non ci siano differenze sostanziali, per esempio, tra la designweek che si tiene in Giordania e quella di San Francisco.

Sono gli stessi pezzi, le stesse sfide, le stesse idee alle quali i giovani designer approdano. E questo è uno dei motivi per cui credo non sia necessario ospitare una designweek diversa in ogni città. Le più interessanti sono senz'altro quelle che riescono a portare progettisti e appassionati da tanti diversi paesi e da tanti diversi contesti a parlare delle similitudini delle tematiche che stanno affrontando. Dubai, per esempio, che è una città molto giovane con un'ancora più giovane designweek, ha una caratteristica particolare: non prova a imporsi come capitale del design, ma si propone come piattaforma di incontro in una città facilmente raggiungibile. È di fatto un marketplace e tutta la città è impostata come una fiera permanente.

Le fiere di collectible design e la grande mole di eventi di design accrescono la sensibilità del pubblico nei confronti anche del design industriale senza intaccarlo economicamente. Questo ha dei benefici su tutti questi settori perché l'industria non perde il suo potere, ma al contrario potrà sempre di più contare sulla capacità del design contemporaneo di proporsi a un pubblico più consapevole e più attento alle sue scelte in termini di sostenibilità ambientale, sociale e culturale.

In apertura: L'ALLESTIMENTO DI ERASTUDIO APARTMENT A MIART 2018